giovedì 19 dicembre 2013

Viola del Pensiero

A Nunù, Absteria, Marta e Chicca,

perché senza il loro supporto questa storia non avrebbe mai visto la luce.



Aprì gli occhi e fissò il soffitto bianco che la sovrastava. C’era una macchiolina di umidità proprio sopra di lei. Viola la osservò e pensò che avesse una forma curiosa. Quello fu il suo primo pensiero.
Rimase concentrata su quel difetto del soffitto per diversi minuti, poi, come guidata da una mano invisibile, si mise seduta e scostò le lenzuola che la coprivano, portandosi sul bordo del letto. Scese con un leggero balzo e mosse un paio di passi, poi un acuto dolore la costrinse a fermarsi. Spostò il suo sguardo verso l’avambraccio destro e osservò l’ago che penzolava al nastro adesivo. A meno di un centimetro di distanza una goccia di sangue segnava il punto in cui era stato infilato sotto la sua pelle.
I suoi occhi seguirono il percorso dei tubicini fino alla flebo e Viola sollevò la mano sinistra per togliere tutti i fili che le erano stati appiccicati addosso. Il suo sguardo si posò su un apparecchio che aveva iniziato ad emettere un lungo suono che sapeva di morte. Lo schermo mostrava una riga piatta.
Viola gli voltò le spalle e si diresse verso la porta, muovendosi nella luce soffusa e nell’odore di detergente alla lavanda che impregnava la stanza.
Lo spazio oltre lo stipite le sembrava confuso, incerto. Mentre vi si avvicinava, Viola percepiva soltanto qualche rumore indistinto, vedeva soltanto una lama di luce pallida che filtrava da sotto la porta.
Uno strano senso d’inquietudine, di indeterminazione la colse. Spostò molto lentamente la mano sulla maniglia fredda d’acciaio e lì la lasciò riposare per diversi minuti.
Chiuse gli occhi e lasciò che l’ambiente che la circondava le fluisse dentro attraverso gli altri sensi. Quella stanza profumava di vita e risuonava di morte.
Viola decise di non voler più rimanere in quel luogo e abbassò lentamente la maniglia, aprendo la porta.
Il rumore di un corridoio trafficato le si abbatté addosso con violenza, facendola sobbalzare. Sollevò prudentemente le palpebre, quel tanto che bastava per tornare a vedere, e il suo sguardo fu ferito dall’evanescente luce al neon che illuminava l’ambiente. Viola arretrò istintivamente, spaventata dalla confusione, poi ripensò al dualismo sensoriale che stava a pochi passi dietro di lei e si fermò.
Di colpo fu sicura di non voler ritornare in quella stanza.
Gli occhi nuovamente serrati, lasciò che l’udito la guidasse nell’esplorazione di quel luogo sconosciuto.
Un telefono squillava insistentemente. Rumore di passi, molti passi. Il dottor Giannelli in chirurgia. Il dottor Giannelli in chirurgia. Un bambino stava piangendo, non molto distante da lei. Qualcosa che si rompeva. Vetro, probabilmente. Ha bisogno di aiuto, signorina?
Viola aprì gli occhi. Un’infermiera dal camice bianchissimo, che contrastava con la sua carnagione scura, stava giusto di fronte a lei, riempiendole la visuale col suo volto materno, e aspettava una sua risposta.
Viola scosse la testa molto lentamente e fece cenno di voler tornare nella stanza da cui era appena uscita.
L’infermiera allungò una mano e le diede un buffetto sulla guancia, sorridendole, poi si allontanò a passo spedito e a Viola sembrò si dissolvesse come una sagoma di fumo. Curioso, pensò.
Lasciò correre lo sguardo su ciò che la circondava. Non si trovava in un corridoio, ma in un’accettazione. Di fronte a lei c’era il bancone della reception, di legno pesante, nero e ricurvo.
Operatori in divise nere rispondevano al telefono, lo sguardo distante fisso nel vuoto.
Appoggiato con un gomito sulla superficie levigata stava un medico; lo deduceva dal camice bianco. Stava parlando con una donna molto pallida e molto bionda, con uno sguardo lascivo. Ora rideva e ammiccava. Scuoteva la sua chioma ossigenata. Lui le stava fissando il seno e sulle sue labbra c’era un ghigno predatore.
Viola distolse lo sguardo e lo lasciò cadere su un inserviente che spingeva un anziano signore in sedia a rotelle. Fissava il vuoto come i suoi colleghi, mentre il paziente imprecava nella sua direzione. “Sono perfettamente in grado di camminare, io!” gli stava dicendo, furibondo. “Mi sleghi da questa maledetta sedia!” E strattonava la sua vestaglia bianca.
Viola pensò che tutto fosse terribilmente bianco o nero, in quel posto. Tutto tranne lei, l’unica macchia di colore con la sua camicia da notte lilla.
I suoi occhi si spostarono per qualche secondo dai due, abbracciando l’intero ambiente, poi tornò a cercarli tra la gente. Non riuscì più a trovarli.
Da una porta accanto alla sua, Viola vide uscire una suora che stringeva tra le mani un rosario. Faceva scorrere le perle muovendo le labbra in silenzio, fissando il pavimento e allontanandosi a piccoli passi.
Dopo pochi minuti, dalla stessa stanza uscirono due inservienti che spingevano una barella. Un telo bianco era posato sulla sagoma umana immobile. Dall’alluce sinistro pendeva un cartellino con alcune scritte nere.
Attraversarono la gente che affollava l’accettazione con aria del tutto indifferente, quasi fossero invisibili; Viola esitò per qualche momento, poi li seguì, inspiegabilmente attratta da quel corpo senza lineamenti.
Si inoltrarono in un corridoio dalle pareti bianche e lucide, che riflettevano la luce traballante rendendo vitrea l’atmosfera. Viola si sentì fuori posto mentre fendeva l’aria satura di disinfettante con la sua presenza viva.
I suoi piedi scalzi non emettevano alcun rumore; seguivano in silenzio lo scricchiolio dei calzari ortopedici degli inservienti. Quel corridoio sembrava infinito. Viola si chiese dove terminasse.
Camminarono per lunghi minuti, poi il gruppo che la precedeva si fermò davanti ad una porta a doppio battente. Uno dei due uomini digitò una breve sequenza su un tastierino elettronico e la porta si aprì, scivolando di lato e rientrando nel muro. Spinsero la barella all’interno, ignorando del tutto Viola, per poi tornare da dove erano venuti.
Viola rimase in bilico sulla soglia, impedendo alle porte di richiudersi. Era molto indecisa, non era certa di volersi addentrare in quel luogo. Profumava di morte. Lo sguardo le cadde sulla sagoma coperta dal lenzuolo che aveva seguito fin lì.
Mosse un passo, poi un altro. Sempre più decisa, si avvicinò alla barella incustodita. Sentiva il bisogno di conoscere il volto di quell’individuo.
Strinse lentamente tra le dita un lembo del lenzuolo e lo sollevò.
Era un uomo giovane, non poteva avere più di trent’anni. Sembrava addormentato. Viola percorse i suoi lineamenti con le dita; fronte ampia, naso dritto, labbra carnose. Aveva la fossetta sul mento. Viola pensò che fosse bello. Era un pensiero nuovo.
Posò la mano sul suo petto gelido, sopra il lenzuolo, dove immaginava un tempo avesse battuto il suo cuore. Non sentì nulla sotto le dita. Tornò ad accarezzare il volto dello sconosciuto, guardandolo con aria malinconica. Rimase così per un po’, in silenzio, poi rimise a posto il lenzuolo e se ne andò senza guardare indietro.
Percorse il corridoio nella direzione opposta senza incontrare anima viva. Il silenzio d’un tratto si era fatto quasi opprimente. Tornò nella zona reception e le sembrò molto meno affollata di prima.
Nessuna infermiera dall’aria materna, nessun vecchietto infuriato, nessuna bionda ossigenata che flirtava con il dottore. Soltanto i soliti inservienti dalla divisa nera in una stanza bianca. Viola si chiese dove fossero finiti tutti quanti. Si guardò attorno e le sembrò che anche le figure nere che puntellavano la stanza stessero diminuendo. Sparivano uno alla volta, silenziosamente, senza farsi notare, quasi aspettassero che lei voltasse loro le spalle per poi defilarsi, non visti.
Viola non capiva. Eppure quelli sparirono tutti, lasciandola sola.
Viola sentì il bisogno di piangere. Anche questa era una cosa nuova. Grosse lacrime scesero dai suoi occhi, lasciando scie umide sulle sue guance e bagnandole la vestaglia lilla. Piangeva silenziosamente, senza singhiozzare.
«Mi spiace, Viola» disse una voce alle sue spalle.
Viola si voltò, incurante delle lacrime che continuavano a scorrere.
Un giovane uomo la stava fissando a pochi metri da lei. Aveva un’aria trasandata, forse per colpa della barba incolta e degli abiti sgualciti.
Viola si limitò a fissarlo. Lui la guardò con un sorriso compassionevole.
«Non sta andando come volevo, Viola. Ci sono troppe cose irreali, troppi cliché, troppa superficialità. Guardati, Viola! Non ti ho nemmeno dato una voce.»
Viola si portò una mano alla gola. Non capiva. All’improvviso desiderò parlare con quell’uomo, chiedergli perché le parlasse come se fosse una sua creazione. Aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono.
Gli occhi le si riempirono di nuovo di lacrime. Cosa le aveva fatto?
«Forse nella penna di qualcun altro saresti stata una protagonista eccezionale, Viola.»
Ora l’uomo stava sospirando, stava guardando da un’altra parte.
Viola pensò che l’uomo fosse pazzo e desiderò l’aiuto di qualcuno. Si guardò attorno, dando fondo alle ultime gocce di speranza che aveva.
«Sono spariti tutti, Viola» disse l’uomo «li ho dovuti cancellare.
Viola lo fissò con tutta la forza del suo sguardo. Perché?
«Non erano credibili. Troppa asetticità, troppi stereotipi. Mi facevano pena. Nessuno avrebbe voluto leggere di loro. Ho dovuto.» ripetè, più a se stesso che a Viola. «Ma tu sei diversa, sei speciale.» Le piantò addosso il suo sguardo triste e rassegnato, poi scosse la testa. «Speciale, sì, ma non abbastanza; non ancora.»
Le sorrise un’ultima volta. Viola lesse nei suoi occhi il dispiacere. «Magari un giorno ci rivederemo, Viola. Non mi sono ancora arreso.»
Viola capì. Era arrivato il suo turno. Si guardò i piedi nudi; avevano già cominciato a svanire. Fissò lo sguardo negli occhi dell’uomo, vide che una lacrima solcava le sue guance. Viola sollevò una mano verso di lui, come se lo stesse salutando, e sorrise per la prima volta.
Poi scomparve, come tutti gli altri prima di lei.

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Questa storia è stata scritta per il contest Niente è come sembra, con il prompt 'viola come la morte'.
Ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale. La storia ed i personaggi mi appartengono; ogni riproduzione totale o parziale del testo è soggetta alla mia approvazione.