Note
- La storia è nata per un concorso, che potete trovare qui, e si ispira ad una canzone dei Breaking Benjamin, So Cold, che consiglio di ascoltare e capire prima di continuare a leggere.
- I personaggi e le vicende narrate sono e restano una mia proprietà intellettuale. Chiunque volesse copiare integralmente o in parte quanto sotto riportato deve ottenere il mio permesso esplicito.Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale.
Buona lettura.
oO^O^Oo
Show me how it ends, it’s alright.
Breaking Benjamin, “So cold”
Mi ha lasciato. Ha
preso le sue cose e mi ha lasciato. Il dolore torna con il primo pensiero
coerente del giorno, mentre, con gli occhi ancora chiusi, cerco di aggrapparmi
al sonno per non dover affrontare la mia vita. Mi sembra di sentire il rumore
di vetri infranti mentre me la immagino cadere a pezzi.
Stringo
le ginocchia al petto, incastrando la testa tra le braccia, cercando di
nascondermi. Penso futilmente che, se fingessi che nulla sia successo, lui potrebbe
ricomparire assieme a tutte le sue cose e
sarebbe stato soltanto un brutto sogno.
Ma
il suo corpo non è a fianco al mio sotto il piumone, il suo lato del letto è
gelido come l’acqua di uno stagno d’inverno, come lo sguardo di mio padre
quando gli ho detto che sono gay e andavo a vivere con lui, tutto in una volta;
come il corpo di un uomo morto.
Le
sue parole riaffiorano con la violenza di uno schiaffo e lo vedo, nella mia
mente, per la milionesima volta, mentre se ne sta sulla porta di casa – della
nostra casa – e lo dice, guardandomi con disprezzo.
“Tu
per me sei morto”.
Se
n’è andato senza voltarsi nemmeno una volta, ignorando le mie suppliche, i miei
occhi colmi di lacrime, portando con sé tutto ciò che c’era di buono nella mia
vita.
Perché
lui era buono e lui era la mia vita.
Mi
sono trascinato fino al bagno e adesso sto fissando il mio riflesso sullo
specchio macchiato di ruggine. L’aveva voluto lui così, perché gli piaceva
l’effetto antico; dava un tocco di classe, diceva.
Vorrei
buttarci addosso qualcosa di solido, un bicchiere, un sasso, qualunque cosa
possa mandarlo in frantumi, perché, se la mia anima è distrutta, non c’è
ragione che la mia immagine rimanga integra.
Distolgo
lo sguardo dai miei occhi cerchiati e li lascio vagare sulla stanza, notando la
sua assenza nel mio spazzolino rimasto solo nel bicchiere, nell’antina
dell’armadietto che ha cercato mille volte di riparare, nelle sue vecchie
infradito dimenticate in un angolo.
Le
fisso inebetito, riflettendo che sono probabilmente l’unica cosa che mi rimane
di lui. Mi chino per prenderle e penso a quanto odiavo quelle ciabatte rumorose
e logore.
‘Fanculo,
mi dico, mentre passo in cucina e apro il cestino per gettarle nell’immondizia.
Mi vuole fuori dalla sua vita e io ci starò, scomparirò proprio come desidera,
tornando alla mia vecchia esistenza.
Sto
cercando di darmi un tono, di fingere di essere abbastanza forte – o abbastanza
menefreghista – da poter superare il dolore.
So
che non lo sono, che ci ricadrò entro un paio di minuti, ma quel briciolo di
orgoglio che mi rimane mi sta costringendo a mostrarmi sicuro di me.
Tento
di darmi da fare, ma crollo dopo pochi gesti. Ogni cosa, in quella casa, mi ricorda
lui, le sue manie, il suo sorriso, la sua forza di volontà. So che da solo non
ce la posso fare.
Mi
incammino verso la nostra camera da letto come se la mia mente fosse distaccata
dal mio corpo. Ignoro il piumino stropicciato per metà, il suo comodino vuoto,
le tende ancora tirate, e vado a colpo sicuro verso l’ultimo cassetto dell’armadio,
l’unico angolo davvero mio di tutta la casa.
Lui
non ha mai saputo cosa ci fosse al suo interno; gli avevo chiesto di non
aprirlo e lui aveva rispettato il mio desiderio. Adesso, sono incredibilmente
felice di averlo formulato.
Estraggo
una scatola da sotto un paio di vecchie magliette sgualcite e la poso sul
letto, sollevando il coperchio.
Sorrido
alla vista della siringa ancora piena, pronta per essere usata, e mi torna in
mente il momento in cui lui era rientrato e me l’aveva strappata di mano prima
che l’affondassi nel mio braccio, implorandomi di smettere, costringendomi a
disintossicarmi, ad uscire dal giro degli spacciatori che frequentavo da anni.
Stavamo
assieme da pochi mesi, ma mi era rimasto accanto finché non ero riuscito a
superare le crisi d’astinenza e il desiderio compulsivo di cercare una dose, mi
aveva sostenuto passo a passo mentre ero senza difese e io ne ero stato felice,
appagato, perché lo amavo e mi amava.
Sto
fissando quella dannata siringa, che ho conservato per ricordarmi quando gli devo
per avermi salvato da me stesso, e trovo
incredibilmente ironico, se non addirittura poetico, il fatto che stia per concludere
la mia esistenza allo stesso modo di quella notte di un paio d’anni fa e che
lui non stia per entrare come una furia e fermarmi.
Soppeso
la siringa e la valuto; dopotutto, è una dose che stenderebbe un cavallo, non
vedo perché dovrebbe lasciare in piedi me, soprattutto dopo due anni che sono
pulito. Annuisco e decido che ne ho abbastanza per rischiare un’overdose. Bene.
Mi
trovo a riflettere su come la convivenza con lui sia stata soltanto una
parentesi, un inciso, nel desolante racconto della mia vita. In realtà, dovrei
ringraziarlo per averla allungata di due anni; è stato, in effetti, molto
egoista da parte mia credere e pretendere che lui mi avrebbe fatto da àncora a
questo mondo per tutta la sua esistenza.
Stringo
le dita attorno alla siringa e, improvvisamente, mi passa per la testa che la
droga potrebbe essere scaduta.
Rido
tra me con sarcasmo; non so nemmeno se sia possibile, ma, in qualsiasi caso,
sto per ammazzarmi; se la droga è andata a male tanto meglio, morirò più in
fretta.
Vado
in bagno scrollando la testa per la mia stessa stupidità e mi accomodo sul
fondo freddo della vasca in ceramica: sto meditando di tagliarmi le vene con il
rasoio, se la droga non ha un effetto decisivo, quindi non vorrei sporcare
troppo il pavimento.
Arrotolo
la manica sinistra del pigiama e stringo le dita a pugno, mettendo in risalto
le vene, costellate da una miriade di piccole cicatrici.
Tolgo
il tappo all’ago e premo leggermente lo stantuffo, facendo uscire un paio di
gocce, recuperando in fretta le abitudini passate.
Studio
un attimo il mio avambraccio, alla ricerca di un punto libero, finché non ne
individuo uno proprio a fianco di un piccolo neo. Con un gesto fluido, faccio
scivolare l’ago sotto la pelle, dritto nella vena, e mi abbandono alla
sensazione della droga che scorre dalla siringa.
Pochi
istanti e inizieranno a sentirsi gli effetti.
Mi
appoggio al bordo della vasca, la testa reclinata, e aspetto senza pensare a
nulla.
La
siringa è scivolata sul fondo e adesso preme contro la mia coscia, una presenza
rassicurante che mi dà la certezza che presto non dovrò più preoccuparmi di
soffrire, di dover vivere senza di lui.
Sento
le prime avvisaglie degli effetti della droga, la testa inizia a girarmi e io
non mi oppongo, lasciandomi avvolgere da quelle sensazioni a cui tanto ero
abituato solo pochi anni fa.
La vasca è così fredda sotto di me, mi ricorda
che sono ancora troppo caldo per essere morto, mi tiene abbastanza lucido da
rendermi conto che probabilmente non basterà quella dose ad uccidermi.
Cerco
di calmarmi e lasciare la droga fare il suo compito, ma l’oblio dei sensi tarda
ad arrivare e sento montare la disperazione. Allungo la mano verso il rasoio, finché
ancora ne ho la forza.
Dopotutto,
sono determinato a lasciare questo mondo tanto quanto lo era lui a lasciare me.
Pianto
la lama nel mio polso e la lascio scorrere, aprendo una ferita tremolante da
cui sgorga un fiotto di sangue.
Lo
fisso con lo sguardo annebbiato e capisco di esserci riuscito.
Non
provo nemmeno a tagliare anche l’altro, le forze mi hanno abbandonato e tutto
quello che devo fare è lasciare che il tempo mi porti con sé.
Adesso
il fondo della vasca non è nemmeno così freddo, anzi, è quasi piacevole, anche
se un macigno sembra trascinarmi verso il basso e la mia testa si è fatta
pesante e la mia mente offuscata.
Mi
chiedo come sarà il mio funerale, se ce ne sarà uno. Chissà dove seppelliranno
il mio corpo. Non in un cimitero, di certo, sono gay e suicida, nessun prete lo
permetterebbe mai. Mi piacerebbe essere sepolto in mare, come quelli che
muoiono nelle navi. Non so come un’idea del genere mi sia potuta venire in
mente, ma mi pare molto poetica. Forse avrei potuto lasciarlo scritto da
qualche parte. Peccato, è troppo tardi.
Sento
che ormai sono vicino alla fine, lo percepisco nel vuoto che ho dentro, nel
buio che mi sta circondando. Ad un certo punto, penso che lui sia al mio fianco
e stia allungando una mano, mi stia accarezzando la guancia. Ma è impossibile,
io non sento più nulla e lui se n’è andato, senza voltarsi, portando con sé la
mia vita.
Mi
sembra di sentirlo inveire contro la mia stupidità alternando imprecazioni e
“va tutto bene” mentre si muove attorno a me, ma immagino sia solo un riflesso
dei miei desideri, suppongo che la mia mente sia troppo confusa per distinguere
realtà e pura immaginazione. Adesso sta piangendo mentre si sporge sopra di me.
Che sciocco. Ho gli occhi chiusi, non posso sapere come è messo, cosa sta
facendo. Lui non è nemmeno qui, e io sono solo.
Qualcosa
di caldo scivola sulla mia faccia e mi costringo ad aprire gli occhi, per
capire cosa sia.
Lo
fisso mentre scruta il mio volto con gli occhi pieni di lacrime, stringendo le
sue mani attorno al mi0 polso come se ne andasse della mia vita. A dire il
vero, è proprio il caso che stringa forte. Oppure no?
Mi
rendo conto troppo tardi che anch’io sto piangendo, perché è tornato e io sono
stato uno stupido, perché sto morendo e lui non può farci niente e vedo
l’impotenza nei suoi occhi, e la rabbia di chi non può fare più nulla ma non
vuole nemmeno arrendersi. Lo vedo attraverso il mio sguardo appannato, mentre
tutto si fa sempre più buio e io non posso evitarlo, non posso resistere; mi
sto lasciando andare e non riesco ad accettarlo, perché adesso voglio vivere e
non è giusto. Lo intuisco, più che sentirlo, lo vedo comparire sulle sue
labbra, ed è l’ultima cosa che la mia mente riesce a capire, quel ti amo
sussurrato tra le lacrime, mentre il mondo si spegne attorno a me per l’ultima
volta.
E
tutto scompare; lui, i miei pensieri, la mia vita.
Ora sono soltanto un cadavere in una casa
vuota, in attesa che qualcuno mi trovi.
Fine
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